La crescita esponenziale delle malattie allergiche ha suggerito ad alcuni Autori il termine di “epidemia allergica” per definire il fenomeno (1). Studi epidemiologici indicano una prevalenza nel Mondo occidentale di allergopatie nel 20-30% nella popolazione generale (2-4). Tuttavia il numero degli allergici può aumentare artificiosamente per l’uso improprio (anche da parte dei medici) del termine “allergico“, che porta a classificare come allergici anche gli effetti indesiderati dei farmaci, le reazioni tossiche ad alimenti o quelle ad agenti irritanti. Un’ulteriore sovrastima viene dall’ attribuzione della patogenesi allergica a svariate patologie (emicrania, colon irritabile, orticaria cronica, sindrome della fatica cronica, sindrome ipercinetica del bambino, artriti siero-negative, otite sierosa, malattia di Chron), anche se non esistono evidenze scientifiche in proposito (5). Tutto questo ha contribuito a creare la diffusa opinione che l’allergia alimentare possa essere il “camaleonte della medicina”, in grado di spiegare patologie estremamente diversificate e che ancora non hanno trovato una sicura collocazione nosografica. L’esistenza di un’imbarazzante distanza fra il sospetto clinico-anamnestico e la sicura conferma diagnostica con test di scatenamento in doppio cieco vs placebo (DBPCFC), considerato il test diagnostico più sicuro, è documentata da due ampi studi europei, il primo olandese ed il secondo danese (Tab.1) (6-7).Tabella 1. Prevalenza delle reazioni avverse a cibi
Prevalenza su base anamnestica | Confermata al DBPCFC | |
D. Altman, L.T. Chiaramonte (1994) 1483 soggetti | 12,4 % | 0,8 % |
JO’B. Hourihane (1994) 7500 soggetti | 19,9 % | 1,8 % |
Si può razionalmente individuare nella scarsa disponibilità di estratti commerciali standardizzati e nell’uso di tecniche non sufficientemente standardizzate come il prick by prick con alimento fresco (8) la causa di alcune false negatività. Inoltre, per spiegare questa discrepanza si possono anche ipotizzare modelli patogenetici immunologici diversi da quello reaginico in alcune reazioni ad alimenti (9), ma certamente l’analisi di questi numeri induce una profonda riflessione circa i precisi confini dell’allergia alimentare. Ulteriore elemento di confusione diagnostica è rappresentato dal sempre più frequente ricorso da parte dei pazienti a test “alternativi” che si propongono di identificare con metodiche diverse dalle tradizionali i cibi responsabili di allergie o “intolleranze” alimentari. Quest’ultimo termine, nella sua accezione più rigorosa, vuole indicare ogni reazione avversa riproducibile conseguente all’ingestione di un alimento o ad alcuna delle sue componenti (proteine, carboidrati, grassi, conservanti). La definizione quindi comprende reazioni tossiche, metaboliche e allergiche (10). Purtroppo il termine è sempre più frequentemente interpretato in senso generico anche ad indicare un’avversione psicologica nei confronti di questo o quel cibo. Scopo di questa breve rassegna vuole essere un’analisi del razionale e della documentazione scientifica dei numerosi test che sono oggi proposti dalla Medicina Complementare.
Razionale
Proposto per la prima volta nel 1956, e quindi cronologicamente prima della scoperta delle IgE, questo test si basa sul principio che l’aggiunta in vitro di uno specifico allergene al sangue intero o a sospensioni leucocitarie comporti una serie di modificazioni morfologiche nelle cellule fino alla loro citolisi (11-12). Nel test viene fornita una scala semiquantitativa che ha nella lisi cellulare l’alterazione più significativa. In tempi più recenti è stata anche proposta una versione automatizzata del test, che si basa sul principio dei coulter-counter (ALCAT).
Evidenze scientifiche
Franklin e Lowell (13) documentarono in soggetti allergici all’ambrosia l’assenza di significative differenze morfologiche nei globuli bianchi quando posti in provette a contatto con estratto di ambrosia o con soluzione salina.
Chambers e coll. (14) in soggetti polisensibilizzati non evidenziarono significative differenze nei globuli bianchi se posti a contatto con allergeni cui tali soggetti erano o meno sensibilizzati.
Lieberman e coll. in uno studio controllato (15) volto a valutare l’effetto citotossico di alcuni allergeni su globuli bianchi posti in sospensione nel plasma non identificarono alcuna correlazione fra risultati del test e reazioni allergiche a cibi o con reazioni indesiderate nei confronti degli stessi (emicrania, diarrea, astenia); inoltre il test non era riproducibile dal momento che si ottenevano risultati diversi per una stessa persona se saggiata in momenti successivi.
Benson e Arkins (16) in uno studio controllato in doppio cieco hanno identificato un elevato numero di risultati falsamente positivi e negativi che tolgono al test citotossico qualsiasi validità clinica. Questi risultati sono confermati da altri studi in doppio cieco effettuati da Lehman (17) e da Stein (18). Anche la metodica automatizzata ha dato luogo a risultati piuttosto controversi (19-21). Le modificazioni morfologiche o delle dimensioni dei leucociti, sono verosimilmente da imputarsi a variazioni di pH, temperatura, osmolarità e tempo di incubazione (22-23).
Alla luce di queste evidenze sperimentali l’American Academy of Allergy ha concluso che il test non è affidabile nella diagnostica allergologica e per questo test non è prevista negli Stati Uniti la rimborsabilità (24).
Test di provocazione neutralizzazione (intradermico)
Razionale
Può essere definita una tecnica sia diagnostica che terapeutica. Si basa sulla somministrazione per via intradermica dell’allergene o di altre sostanze e sulla successiva osservazione del paziente per un periodo variabile da 10′ a 12′ per valutare la comparsa di qualsiasi tipo di sintomatologia. Non ci sono limiti circa numero, gravità e tipologia di sintomi provocati.
Questo test differisce profondamente dal test di provocazione specifico con allergene, che fa parte del bagaglio diagnostico dell’allergologia tradizionale e che trova la sua indicazione nell’accertare il ruolo eziologico di un singolo allergene in un quadro generalmente di polisensibilizzazione. Infatti nel test di provocazione specifico (congiuntivale, nasale e bronchiale) alla somministrazione topica dell’allergene segue un monitoraggio sintomatologico e funzionale che valorizza solo i parametri compatibili con una patogenesi reaginica. Inoltre viene testato un estratto standardizzato la cui concentrazione è incrementata progressivamente fino all’identificazione della dose “provocativa” in grado cioè evocare la comparsa di una sintomatologia allergica o di determinare una significativa riduzione di parametri funzionali (spirometrici o rinomanometrici) rispetto ai valori basali. In questa metodica “alternativa” invece il tipo di allergene testato non è quello suggerito dalla storia clinica e il test viene considerato positivo quando il paziente avverte qualsiasi tipo di sintomo (25). Il test non è standardizzato ed è completamente affidato alla libera interpretazione dell’esecutore. Una sintomatologia aspecifica, modesta che non correla col possibile meccanismo patogenetico è ugualmente considerata una risposta positiva. Inoltre, non vengono utilizzati controlli negativi , ed il termine di 10′ come tempo di osservazione è del tutto arbitrario (26). La seconda fase della neutralizzazione consiste in una successiva somministrazione dell’allergene, immediatamente dopo la comparsa di una positività del test. In questo caso si somministra un dosaggio inferiore o superiore della stessa sostanza che ha determinato la reazione nell’intento di neutralizzarla. Si tratta pertanto di un secondo test di scatenamento a dosaggio inferiore o maggiore del primo. Coloro che hanno proposto il test hanno suggerito scenari patogenetici molto poco probabili caratterizzati dall’istantanea formazione di anticorpi o dalla dissoluzione di complessi immuni (25-27).
Evidenze scientifiche
La letteratura relativa a questo test è solo descrittiva e l’efficacia viene supportata da case reports. Miller (28) segnala un favorevole risultato con questa tipologia di test effettuando iniezioni sottocutanee di alimenti a 8 soggetti in uno studio controllato. La prima critica a questo studio viene da un ventaglio di sintomi che mal si accorda con la singola reazione ad un alimento, mentre l’analisi dei risultati è scarsamente supportata dal punto di vista statistico. Peraltro uno studio condotto in doppio cieco da Crawford e coll. su una più ampia casistica (61 soggetti) con 5 alimenti comuni non ha confermato la validità e la riproducibilità del test (29). Bronski e coll. hanno valutato una serie di parametri (frequenza cardiaca, monitoraggio del picco di flusso, fluttuazioni della conta leucocitaria, ECG) in 20 bambini asmatici e non hanno trovato alcun tipo di correlazione con questo tipo di metodica (30). Draper ha valutato la correlazione fra il risultato del test di provocazione e l’ingestione dell’alimento saggiato per via intradermica in 121 soggetti ed ha evidenziato che nel 38% dei casi la positività del test non era confermata dalla successiva ingestione dell’alimento. Questo Autore suggerisce pertanto la necessità di integrare il test con l’ingestione dell’alimento risultato positivo (31). Kailin e Collier hanno valutato in doppio cieco l’effetto positivo della neutralizzazione trattando con estratto acquoso di alimento e soluzione salina soggetti che avevano precedentemente risposto positivamente alla neutralizzazione. I trattamenti attivi sono stati correttamente identificati nel 70.6% dei casi, ma la soluzione salina è stata considerata come trattamento attivo nel 70%, escludendo pertanto ogni differenza dal placebo (32). Da non trascurare è la potenziale pericolosità del test, che ha scatenato un episodio di anafilassi in un soggetto affetto da mastocitosi (33).
Test di provocazione neutralizzazione (sublinguale)
L’introduzione della somministrazione sublinguale dell’allergene fu proposta per la prima volta da Hansel nel 1944, nella diagnostica delle reazioni indotte da cibi sia respiratorie che gastrointestinali e sistemiche (34). Attualmente la tecnica consiste nel porre a livello sublinguale tre gocce di un estratto allergenico acquoso o glicerinato (1/100 peso/volume) e, come per la provocazione intradermica, nella valutazione di eventuali reazioni che compaiono entro un tempo massimo di 10′ (35).
Quando l’esaminatore ritiene di essere in presenza di una risposta positiva, somministra al paziente una dose di neutralizzazione di una soluzione diluita (es. 1/300.000 peso/volume) dello stesso estratto utilizzato nella provocazione. La sintomatologia scatenata dalla provocazione dovrebbe regredire con un tempo di latenza analogo a quello della fase di scatenamento. In Italia si è sviluppato un test che si ispira sia a questa metodica che alla kinesiologia applicata (trattata successivamente), chiamato DRIA-test e proposto dall’Associazione di Ricerca Intolleranze Alimentari. In questa variante del test la somministrazione sublinguale dell’allergene è seguita da una valutazione della forza muscolare per mezzo di un ergometro. Il test è considerato positivo quando compare una riduzione della forza muscolare entro 4′ dall’apposizione sublinguale dell’estratto.
Evidenze sperimentali
Casi aneddotici sostengono l’efficacia della somministrazione sublinguale nella diagnosi e nel trattamento dell’allergia alimentare (34-37). Tuttavia questi studi non sono controllati e il miglioramento clinico non è suffragato da oggettivi dati scientifici. Studi controllati sono stati invece effettuati da altri gruppi. In particolare il Food Allergy Committee dell’American College of Allergists ha valutato consecutivamente per due anni, nel 1973 e nel 1974 l’uso di questo test giungendo alla conclusione che non è in grado di discriminare l’estratto alimentare dal placebo (38-39). In seguito a questi risultati il Comitato sconsiglia l’uso di questa metodica nella diagnostica dell’allergia alimentare. In un’altra indagine Kailin ha valutato l’efficacia del test di provocazione sublinguale effettuato da 5 diversi operatori che utilizzavano la metodica da almeno 7 anni e che potevano riesaminare soggetti noti con allergia alimentare nota, inseriti però in uno schema in doppio-cieco. Anche in questo caso non si è riusciti a discriminare l’estratto attivo dal placebo (40). Questi dati sono stati ulteriormente confermati di recente da Lehman (41). Altre revisioni dell’argomento che provengono da fonti autorevoli escludono qualsiasi utilità del test (42-44). Più recentemente un Position Paper dell’American College of Physicians ha esaminato 91 studi selezionandone 15. Di questi, 8 davano risultati favorevoli e 7 negativi. L’assenza di univocità di risultati era da imputarsi, secondo gli Autori della revisione, alla scarsa attendibilità scientifica di tutti gli studi esaminati, per la mancanza di gruppi di controllo, di randomizzazione della casistica, di standardizzazione delle procedure (45). Un ulteriore studio, altamente apprezzato dai sostenitori di questa metodica perché favorevole, mostra decisive carenze strutturali (46). E’ interessante notare che quando la provocazione/neutralizzazione viene valutata da medici non ecologisti clinici i pazienti non distinguono l’attivo dal placebo (47).
Kinesiologia applicata
Proposta prevalentemente da osteopati e chiropratici questa diagnostica dell’allergia alimentare si basa su una soggettiva misurazione della forza muscolare. Il paziente tiene con una mano una bottiglia di vetro che contiene l’alimento da testare, mentre con l’altra mano spinge contro la mano dell’esaminatore. La percezione da parte di quest’ultimo di una riduzione della forza muscolare indica una risposta positiva e pertanto un’allergia o intolleranza nei confronti dell’estratto contenuto nel recipiente.
Alternativamente la bottiglia può essere posta sul torace del paziente o vicino allo stesso, senza tuttavia che avvenga un contatto diretto fra l’estratto di cibo e il soggetto da esaminare (48,49). La modificazione della forza del muscolo scheletrico sarebbe espressione di un’inibizione o di una facilitazione delle trasmissioni neuro-muscolari legata all’allergia alimentare (50,51). Peraltro non è mai stato documentato un interessamento dell’apparato scheletrico in corso di reazioni allergiche (52). Inoltre il fatto che l’allergene non sia posto a diretto contatto del soggetto ma con l’intermezzo della bottiglia esclude ogni possibile spiegazione razionale. Coloro che propongono il test usano parole magiche come “campi energetici” o ” stress epatico” per giustificare i risultati (52). La procedura, assolutamente atraumatica, trova proseliti soprattutto in coloro che temono gli aghi. Alcune varianti del test sono ancor più bizzarre: la diagnosi in età pediatrica viene fatta al genitore prima con in braccio il bambino e poi da solo, ed ogni differenza fra i due test è attribuita al bambino.
Evidenze scientifiche
Un unico studio che ha utilizzato un disegno in doppio cieco non ha dimostrato alcuna specificità e riproducibilità del test (53). In un altro studio le risposte al test kinesiologico sono state correlate ad alcuni parametri immunologici quali il dosaggio delle IgE specifiche, immunocomplessi per IgE e IgG nei confronti di 21 alimenti. Questi test confermarono, secondo gli Autori, il risultato del test kinesiologico in 19/21 casi (90,5%) (54). Tuttavia il parametro che correlava maggiormente era rappresentato dalle IgG, recentemente destituite di alcun significato diagnostico nell’allergia alimentare (55).
Test del riflesso cardiaco-auricolare
Si basa sull’assioma, peraltro scientificamente mai provato, che se la sostanza cui il soggetto è allergico viene posta alla distanza di 1 cm dalla cute il riflesso auricolare-cardiaco (che viene descritto dall’agopuntura) determina una modificazione del polso radiale, che viene sfruttata nella diagnosi di allergia. Come test si utilizzano estratti liofilizzati di alimenti posti in speciali filtri. Con questa tecnica è possibile testare 50 alimenti o altre sostanze chimiche in 15 minuti. Non esiste alcun presupposto teorico scientifico al test né studi che ne abbiano studiato la validità.
Pulse test
Una teoria che indicava l’allergia in grado di modificare la frequenza cardiaca è alla base di questo semplice test, nel quale la frequenza cardiaca viene monitorata in presenza dell’allergene (56). Sorpredentemente il test è ancor oggi proposto e ancor più sorpredentemente alcuni soggetti credono al suo risultato. La dose test allergenica può essere somministrata per iniezione, per bocca o per inalazione. Non è mai stato standardizzato l’intervallo di tempo fra l’applicazione dell’allergene e la successiva modificazione del polso. Tuttavia una modificazione di almeno 10 battiti/minuto è considerata una risposta positiva, anche se non c’è unanime accordo fra gli esaminatori se sia significativo un incremento o una diminuzione o entrambe. Peraltro non esiste, alla luce delle attuali conoscenze patogenetiche delle malattie allergiche, un razionale a questo test
Non esistono studi che abbiano valutato il test o lo abbiano confrontato con test standard.
Test elettrodermici (EAV elettro agopuntura secondo Voll): Vega test, Sarm test, Biostrenght test e varianti
Razionale
Questo tipo di diagnostica è utilizzata da alcuni decenni in Europa e più limitatamente anche negli Stati Uniti. Si è sviluppata a partire dalle osservazioni dell’elettroagopuntura secondo Voll sulle variazioni del potenziale elettrico in relazione al contatto con alimenti “non tollerati” o “nocivi” (57,58). Ha il suo presupposto teorico nella “Medicina Funzionale” che si propone come sintesi fra lo studio del mesenchima e dei sistemi di regolazione endogeni, la visione energetica dei Meridiani attinta dalla Medicina Tradizionale Cinese e le concezioni dell’omeopatia, a costituire un potenziale “ponte” fra Medicina Tradizionale e Complementare (59).
Il presupposto teorico fondamentale è che sia possibile leggere i potenziali elettrici cellulari, tissutali e distrettuali e che dalla variazione di questi e dalla rapidità di trasmissione dello stimolo elettrico sia possibile ricavare indicazioni sul pH e sul corretto funzionamento metabolico dei distretti interessati (60). Esistono molti tipi di apparecchiature bioelettroniche non convenzionali che funzionano in modo differente, ma in comune hanno in genere alcuni elementi:
a) l’utilizzo di impulsi elettrici o elettrici a basso voltaggio;
b) la lettura delle resistenze elettriche cutanee come parametro di valutazione delle funzioni d’organo;
c) la ricerca di disequilibri e blocchi funzionali distrettuali, espressi come variazioni della conducibilità elettrica cutanea, come causa di malattia;
d) l’applicazione di svariate frequenze elettromagnetiche in grado di modificare la conducibilità elettrica misurata. In tutti questi sistemi l’organismo viene a trovarsi in un circuito attraverso il quale sono fatte passare deboli correnti elettriche (dell’ordine di circa 0.1 V, 7-15 mA, 7-10 Hz) oppure specifici stimoli elettromagnetici ed elettronici.
L’uso di apparecchi apparentemente sofisticati fa nascere nel paziente l’opinione che tale diagnostica sia sorretta da una avanzata tecnologia. Peraltro il principio che una reazione allergica modifichi il potenziale elettrico cutaneo non è mai stato dimostrato. Tecnicamente si applica un potenziale elettrico alla cute e si osservano le modificazioni della resistenza cutanea in presenza dell’allergene, posto in una fiala (inserita nel circuito dell’apparecchio) alla concentrazione abituale o estremamente diluito. Le variazioni del potenziale cutaneo vengono registrate con una sottile sonda metallica posta in contatto con la cute in punti che corrispondono ai punti di repere dell’agopuntura. Le differenti aree esaminate forniscono diverse informazioni circa le diverse manifestazioni allergiche e i diversi allergeni.
Evidenze scientifiche
Applicazione frequentissima di queste metodiche è rappresentata dalle malattie allergiche. Vari studiosi hanno uniformemente osservato l’incapacità di tali metodiche di identificare gli allergeni responsabili per cui tale campo di applicazione dovrebbe essere escluso (61-64). Un solo studio suggerisce l’uso di questa diagnostica nelle allergopatie (65). E’ significativo il fatto che uno degli Autori di questo studio abbia successivamente pubblicato, su ben più prestigiosa rivista (62), conclusioni opposte alle iniziali (65). Alla luce di questi risultati sperimentali appare ancor più sorprendente il fatto che una ASL come quella de l’ Aquila abbia inserito il Vega-test tra gli accertamenti sanitari erogabili dal Servizio Sanitario Nazionale (66).
Biorisonanza : diagnosi e terapia
La biorisonanza si basa sulla convinzione che l’essere umano emetta onde elettromagnetiche che possono essere buone o cattive. La terapia con biorisonanza usa un apparecchio che è considerato in grado di filtrare le onde emesse dall’organismo e rimandarle “riabilitate” al paziente. Onde patologiche vengono rimosse con questo processo e in questo modo può essere trattata una malattia allergica (67-68). Sfortunatamente è stato dimostrato che l’apparecchio in commercio non è in grado di misurare quel tipo di onda elettromagnetica coinvolta. Due studi recenti, effettuati in doppio cieco non sono stati in grado di dimostrare alcun valore diagnostico o terapeutico della biorisonanza sia in soggetti adulti con rinite allergica (69) che in una popolazione pediatrica affetta da eczema atopico (70).
Analisi del capello (Hair analysis)
Razionale
L’analisi del capello viene utilizzata in campo allergologico secondo due modalità. Nella prima viene identificata un’eventuale intossicazione da metalli pesanti (mercurio, cadmio) o una carenza di oligoelementi (selenio, zinco, cromo, magnesio, manganese) cui segue una terapia sostitutiva (71). La presenza di un eccesso di metalli pesanti è stata posta in relazione con alcune patologie pediatriche come la sindrome ipercinetica del bambino. Sebbene a scopi medico-legali la presenza di questi metalli nel capello indichi una recente esposizione (72), il concetto che una patologia allergica sia ad essi correlata è del tutto speculativa. La seconda modalità di utilizzo di campioni di capelli del paziente utilizza le variazioni della frequenza di un pendolo. La metodica appartiene pertanto più alla sfera della magia che della Medicina.
Evidenze scientifiche
In uno studio è stata valutata la riproducibilità di questa metodica. Sono stati analizzati campioni di sangue e capelli di soggetti allergici al pesce e di controlli negativi. Questi campioni numerati e in duplicato venivano sottoposti al cytotest e all’analisi del capello. Nessuno dei 5 laboratori consultati è stato in grado di diagnosticare l’allergia al pesce ma piuttosto sono state rilevate allergie ad altri alimenti cui i soggetti non erano allergici. Inoltre il campione dello stesso soggetto ha dato luogo a risultati diversi nei diversi laboratori e nello stesso laboratorio nelle due valutazioni (73). Un’analoga ricerca svolta con la stessa metodica dell’analisi del capello effettuata negli Stati Uniti e che ha coinvolto 13 laboratori commerciali che dichiaravano la loro metodica come in grado di valutare una varietà di patologie è giunta alla conclusione che il test non è scientifico e costituisce una perdita economica (74).
Diagnosi allergie alimentari IgG-mediate.
Razionale
Benché la possibilità di un ruolo delle Immunoglobuline di classe G (IgG) nel determinismo di alcune forme di allergia alimentare, quelle in particolare con disturbi cronici e sfumati, possa essere ipotizzata, essa rimane tuttora un problema aperto. Rispetto alle forme IgE-mediate , caratterizzate da una stretta correlazione temporale tra intake dell’alimento e insorgenza del quadro clinico di tipo “tutto o nulla”, la produzione delle IgG richiede tempi più lunghi per portare alla comparsa di titoli significativi. Nel caso delle forme IgG-mediate il meccanismo patogenetico sarebbe strettamente dipendente dalla formazione di immunocomplessi (antigene + IgG), dalla quantità dell’alimento introdotta e dalla frequenza con cui avviene l’assunzione.
Pertanto la diagnosi di allergia alimentare IgG-mediata appare difficile perché non correlata al tipico rapporto causa-effetto che si dimostra nelle forme IgE-mediate. L’assunzione ripetuta e periodica di alimenti , anche a piccole dosi, potrebbe portare al mantenimento di titoli elevati di IgG con successiva formazione di immunocomplessi. La diagnosi di allergia alimentare IgG-mediata poggia sul dosaggio dei livelli anticorpali mediante metodica ELISA ( Enzyme-Linked Immunosorbent Assay) su piastre contenenti allergeni alimentari adesi. Attualmente, tale test presenta alcuni limiti di accuratezza, specificità ,sensibilità e riproducibilità correlabili a numerosi fattori, quali la tecnica di costruzione delle piastre, il metodo utilizzato per il fissaggio degli allergeni nei pozzetti e la qualità degli allergeni alimentari e dei reagenti. Secondo i sostenitori del ruolo delle IgG nelle allergie alimentari (definite “hidden” e “delayed”) anche i quadri clinici si discosterebbero da quelli classici IgE-mediati comprendendo : sindrome del colon irritabile, emicrania, rinite cronica, astenia cronica, depressione e poliartralgie.
Evidenze scientifiche
In alcuni studi condotti su animali e nell’uomo è stata riscontrata la presenza di IgG circolanti specifiche per alcuni alimenti (75-78). Pur non potendo negare la possibilità di un’allergia alimentare IgG-mediata, vanno però dimostrati
sia il ruolo causale di questa classe di immunoglobuline nel determinismo delle allergie alimentari , sia la riproducibilità e la standardizzazione delle metodiche diagnostiche impiegate.
Discussione
L’analisi della letteratura riguardante questi test proposti dalla Medicina Alternativa Complementare per la diagnostica allergologica, prevalentemente alimentare ci suggerisce una serie di riflessioni e ci pone altrettanti interrogativi. Una prima constatazione viene dal fatto che la maggioranza di questi test hanno decenni di vita e che hanno già avuto risposte (negative) già parecchi anni fa circa la loro attendibilità. Questo è un fenomeno certamente strano ed in controtendenza con la Medicina Tradizionale nella quale si privilegia, talvolta anche esasperatamente, la ricerca dell’indagine più recente, nell’ottica di un progresso diagnostico. Un altro elemento di riflessione è che gran parte degli studi (favorevoli) vengono da medici non specialisti, talvolta cultori della Medicina non convenzionale, che sono pertanto privi di una cultura della branca.
Questo ha come conseguenza carenze concettuali oltre che strutturali nella pianificazione e nell’interpretazione dei risultati, che inficiano le conclusioni. I presupposti razionali, pur accattivanti dal punto di vista filosofico non sono mai chiaramente dimostrati sul piano scientifico e pertanto viene a mancare un sicuro razionale al test. Ma l’aspetto più preoccupante è rappresentato dalle possibili conseguenze dell’abuso e dell’adeguamento di questo tipo di diagnostica. In età pediatrica infatti è stato documentato un deficit nella crescita in bambini erroneamente ritenuti allergici ad alimenti e che erano stati sottoposti ad inutili restrizioni dietetiche (79). Questo problema può poi sfociare in quadri drammatici, potenzialmente fatali quando i risultati di un test alternativo sono utilizzati in età neonatale. Abbiamo infatti descritto un quadro quasi mortale di anasarca in una bambina di 6 mesi, causato da una dieta incongrua decisa dalla madre sulla base dei risultati di un test leucocitotossico (80).
Nell’adulto pur meno drammatico deve essere attentamente considerata la rilevanza che i risultati di questi test impongono sulla vita di relazione o sulla qualità di vita. Infatti sovente questi soggetti sono costretti a diete incongrue per periodi molto lunghi ed è resa quasi impossibile una normale vita sociale. Ma ancor più subdolo, ma potenzialmente molto più grave, è il rischio di un ritardo diagnostico. Non dimentichiamo che la visione dell’allergia alimentare come responsabile di un grande ventaglio di sintomi e patologie può trovare erronee risposte nelle false positività di questi test e non imporre in tempi congrui una corretta diagnostica differenziale. Inoltre non bisogna dimenticare che la convinzione da parte del paziente di un’allergia alimentare nasconde frequentemente un disagio psicologico, che trova erronea risposta nelle positività riscontrate al test alternativo (81-86). Un aspetto particolarmente importante nell’attrarre il paziente è la relativa semplicità dei test accompagnata da spiegazioni semplici, facilmente accessibili anche al non addetto ai lavori, oltre che la totale assenza di invasività. Questo suggerisce ancora una volta il ruolo centrale del rapporto medico-paziente e la necessità di una pianificazione chiara dell’iter diagnostico, che fornisca adeguate spiegazioni all’indicazione del test, alla sua esecuzione, ai potenziali limiti dello stesso. E’ inoltre necessario che il paziente sia adeguatamente informato dell’esistenza di test alternativi, illustrandone in modo chiaro e comprensibile le attuali conoscenze scientifiche.
Sul piano speculativo esiste forse una necessità più etica che scientifica di dare una risposta a questi test, dal momento che fonti autorevoli hanno già dato un significativo giudizio (82-87). Sta al medico utilizzare e far conoscere l’opinione di questi esperti, valorizzandone il peso scientifico. Infine in un momento in cui lo sforzo del mondo medico è volto a documentare scientificamente quanto produce, in cui faticosamente si cerca di passare da un “opinion” ad un “evidence” based medicine appare francamente sorprendente e per lo meno molto discutibile la decisione di alcuni amministratori e tecnici pubblici di inserire questo tipo di diagnostica fra gli accertamenti erogabili dal Servizio sanitario Nazionale (66). In fondo sono soldi di tutti anche nostri e in tutte le necessità della Medicina Pubblica crediamo ci siano ben altre e sicure priorità.